Oggi tutto è di troppo, tutto è abusato. Nell’universo gastronomico parole come tradizione, innovazione, ricerca e rivisitazione spesso sono diventate sterili, stanche e sbiadite. Dove occorre soffermarsi è nella visione dell’insieme e dell’unità, vale a dire che la tradizione va elevata mantenendo la profonda radice per portarla avanti nel ciclo del tempo. Massimo Montanari, rinomato storico dell’alimentazione di fama mondiale, affermava che “il cibo è cultura perché ha inventato e trasformato il mondo. È cultura quando si produce, quando si prepara, quando si consuma. È il frutto della nostra identità e uno strumento per esprimerla e comunicarla”, questo sarebbe necessario a mettere fine all’argomento. Quindi la tavola come una cartina tornasole dell’umanità.
Sono convinto che solo se si migliora la tradizione attraverso la profonda conoscenza dei sapori e della materia prima attraverso una contemporanea semplificazione dei concetti si creano vere e proprie portate che incarnano le radici nel territorio dove protagonisti sono il ricordo sensoriale e la memoria olfattiva del piatto originale; è così che si migliora la tradizione e si arriva all’innovazione, con il tempo alla tradizione di domani, tradizione e innovazione come il circolo della vita.
Un esempio su tutti, forse il più grande, che non lascia dubbi al “circolo” perenne della tradizione e dell’innovazione arriva dallo Chef innovatore per eccellenza Gualtiero Marchesi, fondatore della nuova cucina italiana assieme ad Angelo Paracucchi, con il suo “raviolo aperto” la scomposizione del raviolo. Nel 1983 La Cuisine Italienne Réinventée riportava: “Nel raviolo aperto ciò a cui si assiste è soprattutto un ribaltamento dei ruoli: il sottile velo di pasta, da cui traspare in filigrana una foglia di prezzemolo, occulta (cioè confina in posizione subordinata) ingredienti nobili che avrebbero dovuto essergli anteposti per status gastronomico. La pasta assurge qui ad elemento di distinzione: al di là dell’impatto figurativo, il motivo centrale della fascinazione del piatto verte precisamente su questo ricollocamento simbolico, avallato da un titolo ad effetto in cui, non a caso, si fa solo menzione di un raviolo eterodosso”.
Marchesi creava la nuova cucina senza abbandonare la vecchia tradizione per mezzo della scomposizione e parlava di cucina timbrica, quella che da vita a sensazioni di gusto singolo dove ogni ingrediente viene avvertito e di cucina tonale, che mischia i sapori per poi giungere ad un solo sapore, come in una sinfonia musicale. Si potrebbe continuare con il risotto oro e zafferano sempre di Gualtiero Marchesi, stessa filosofia e concetto. Alle base di tutto oltre alla scomposizione e alla creatività: estetica, eleganza, gusto, leggerezza e grandi materie prime.

Se devo parlare di un piatto che racchiude nel mio percorso la continuità della tradizione e rappresenta tutto il mio passato e, che ho trasformato in chiave contemporanea è i “bottoni di Caldaro dell’Argentario dentro e fuori”. Sono partito dalla tipica zuppa di pesce dell’Argentario, che già mangiavo da piccolo cucinata da mia madre, che rivive un’enfasi del mare dove si danno convegno un tripudio di pesci, dal tordo di mare al caviglione, dai gamberi ai calamaretti sino al pesce cappone. La ripropongo servita come un raviolo in veste gourmet, ed è il piatto che tutti ricordano anche a distanza di anni, quindi un piatto del cuore per tutta una serie di sfumature. In pratica mi sono confrontato, attraverso ricerca ed un processo creativo, con la zuppa di pesce delle mie radici,
Il Caldaro, che i pescatori preparavano e mangiavano durante la navigazione. Il nome deriva dalla grossa pentola che veniva e viene usata, a terra (calderone), tante famiglie lo cucinavano nelle calette, sugli scogli in particolar modo la domenica tra amici e familiari in momenti di grandi convivialità ed è il piatto che tutti ricordano anche a distanza di anni, quindi il piatto del cuore per tutta una serie di sfumature”. Bottoni dal sapore intenso e delicato con l’incredibile morbidezza della carne, la parte solida dei pesci all’interno, la perfetta cottura della pasta e la salsa, la parte esterna, che contrasta in maniera armonica gli altri elementi del piatto: in poche parole una modernità che snellisce il passato dove impera estetica e gusto. Con questa portata volevo arrivare ad offrire sia amore e rispetto per questa zuppa atavica senza rinunciare al ricordo olfattivo e gustativo, è un piatto che richiede molta preparazione, tecnica, passaggi precisi e materia prima di alta qualità, solo così e riconducibile alla memoria sensoriale del passato.
La zuppa di pesce ha un passato ancestrale, antico e popolare simbolo della tradizione marinara da sempre a bordo sulla tavola, esiste da quando esistono i pescatori.
Il pesce utilizzato per il Caldaro era quello non destinato alle pescherie o perché poco richiesto, di piccola taglia o rovinato dalle reti. In Italia troviamo un infintà di zuppe di mare: caciucchi, buridde, ciuppin, quadaru, siciliana, crotoniata, trapanese, gallipolina, quatara, guazzetti, brodetti, e tanti altre. In altre zone del Mediterraneo troviamo la zuppa quella marsigliese (bouillabaisse), la bisque sempre francese, la portoghese (con il granchio), la suquet in Andalusia e Catalogno dove il pesce prima viene fritto,
Per concludere con altre principali dal mondo: dashi (Giappone), fanesca (Ecuador), halászlé (Ungheria), ucha (Russia), waterzooi (Fiandre), seafood chowder (Irlanda). Tutte zuppe diverse tra loro ma accomunate nell’origine umile e povera dei pescatori di recuperare, come abbiamo detto, il pesce inutilizzato o invenduto. Parlare di innovazione secondo me significa partire da una ferrata conoscenza della tradizione, prendere l’anima di un piatto storico e trasportarla con dedizione in una forma nuova. L’evoluzione sta nel recuperare e trasformare salvaguardando l’identità culturale che ci portiamo dietro…e, la cultura arriva sempre da mare.
- Tradizione & innovazione …da dove iniziare? - Gennaio 20, 2023