dionysus,baccus, antique greek god

Oh Perbacco!6 min read

In principio era il verbo. Iniziamo proprio con le parole, quelle del vino. Non c’è niente da dire ma la degustazione del vino è una gran bella cosa. Vanno bene le vigne, vanno bene i terreni ed i sottosuoli, va bene il clima, altrettanto produttori e vignaioli ma quando si arriva a prendere confidenza con il calice quello rimane ed è il momento, empirico, evocativo, poetico, godurioso, più atteso in assoluto! Aspetto intrigante delle parole del vino, soggetto in questione, sono l’oggettività e la soggettività che come non mai la fanno da padrona.

Nel corso del tempo ho sentito parlare di specifiche descrizioni come fuochi di artificio vale a dire: sentore di sudore di spogliatoio affollato, sagrato di chiesa, rosa bulgara colta da giorni, carruba birmana decisa, fragola candonga matura, legno bruciato a lungo, salvia sclarea fresca, cappero selvatico di muro, acqua di colonia vintage, colla delle figurine Panini, retrogusto di armadio della nonna, bouquet di sposa a primavera, sesso sfrenato, iuta vecchia bagnata, corteccia di pino a 2500 metri, cavallo sudato che corre sulla sabbia, cinghiale maremmano appena innervosito, selvaggina leggera, selvaggina pesante, carne cruda, carne lessa, carne grigliata, oppure questo vino è un missile fantasmagorico. Un vero e proprio Luna Park con montagne russe. In passato le parole del vino erano ben catalogate, senza scomodare greci e romani che, per descrivere la degustazione, già possedevano un vocabolario ben specifico e preciso. Plinio il Vecchio (che è sempre immancabilmente dappertutto) indicava parole, tempi e tecniche per la degustazione, la Scuola Salernitana che sanciva i cardini della degustazione.

Scorrendo con la mente mi viene da citare Emile Peynaud, padre dell’enologia moderna in Bordeaux (1912-2004), con “Le gout de vin” e Michael Broadbent, critico di vino e banditore in qualità di Master of Wine (1927-2020), con “Wine Tasting”, due leggende e due libri capisaldi che ritengo fondamentali per una formazione classica sull’arte della degustazione, si superati ma da tener presente per guardare avanti e andare oltre. Comunque anche in passato in quanto a “fuochi d’artificio” non scherzavano. E qui vorrei far breccia ad un personaggio protagonista di un memorabile pranzo e altrettante memorabili descrizioni circa “le parole del vino”. Ma andiamo a conoscerlo. Si tratta di Andrè Simon, 1877-1970, scrittore, critico gastronomico francese naturalizzato britannico, Hugh Johnson lo definiva il “…carismatico leader del commercio in ambito vinicolo per quasi tutta la prima metà del ventesimo secolo in Inghilterra…i suoi sensi della vista e del tatto erano sviluppati tanto quanto il suo famoso senso del gusto”. Alcuni giornalisti omaggiandolo in una cena tributo ricordavano che abbagliava tutti con la sua arguzia ed il suo fascino, sottolineavano che per ben 80 anni non ha mai avuto dolori, si limitava a bere una mezza bottiglia abbondante di champagne ogni mattina. Nel dicembre del 1934 Andrè Simon fondò a New York l’International Wine & Food Society con l’intento preciso di sviluppare “la promozione di un’ampia conoscenza e comprensione sia del vino che del cibo, la valorizzazione del loro apprezzamento e la promozione del cameratismo tra coloro che condividono i piaceri della tavola”, ne divenne presidente nel 1941. Il primo numero della rivista dell’International Wine & Food Society, primavera 1934, riportava un pezzo intitolato “A Gastronomic Quarterly” scritto da Andrè Simon stesso.

Oh Perbacco! 1
Grapes growing on the vineyard, close-up view

Si trattava di un suo resoconto all’Hind’s Head Hotel a Bray, di sua mano scrive che quando qualcuno degli ospiti gli chiese cosa ne pensava dei vini serviti rispose :“…che i suoi primi pensieri evocavano ricordi delle vacanze nel Berkshire (contea inglese dove si trova la residenza reale di Winsor).” Lo Chablis del 1926 gli ricordava la grazia del salice argentato; un Montrachet del 1919 della maestosità del pioppo italiano; il Cheval Blanc del 1920 della magnificenza del faggio porpora; un Lafite del 1870 della maestà della quercia reale. Sicuramente quella era la quintessenza della scrittura del vino. O forse preferisci: Un naso da urlo di fumo ed erbe secche, cuoio nuovo, sgargiante, una cascata vertiginosa di frutta e spezie orientali. Un vino di dimensioni mostruose, un opulento, muscoloso, sexy, frutta bomba, un blocco a tutto gas, monumentale ma simmetrico, con impressionanti gocce di soia e note di oliva che portano a un finale mirato, profondo, ma altamente raffinato.” Cosa dire? Veramente affascinante.

Andrè Simon inizialmente si mosse a Londra come agente inglese per la casa di champagne di Pommery e Greno. In seguito scrisse sulla Wine and Food Trade Review una serie di articoli sulla storia del commercio dello champagne in Inghilterra ed è stato uno dei fondatori e anche Presidente del Wine Trade Club nonché fondatore del Saintsbury Club, illustre e rinomato club londinese. Oltre ad aver scritto più di un centinaio di libri su vino e cibo possedeva una delle più importanti collezioni di libri sul vino. Vorrei terminare con un credo di Andrè Simon, su di lui ci sarebbe molto da approfondire, ed è questo: “un uomo muore troppo giovane se lascia del vino nella sua cantina”, rispettando questo pensiero quando a novantatrè anni lasciò questo mondo nella sua cantina giacevano solo due magnum di chiaretto. Circa “le parole del vino”, la riflessione è questa: possiamo immaginare, volare, spaziare, fantasticare, sognare, ma la conoscenza è d’obbligo, non è sufficiente sapere ma è importante conoscere, sapere e conoscere sono due cose ben diverse. Quasi sempre ripiegare su concrete ed efficaci descrizioni è vincente ed eloquente. Ecco due esempi da parte di due personaggi sopra citati.

Michael Broadbent nella fine degli anni 70 così prendeva nota di un Brunello di Biondi Santi del 1961: “Colore granato maturo, bouquet enormemente profondo, ricco ma delicato ed aromatico, al palato secco, corposo, gusto ricco e pieno decisamente robusto, quasi tostato con tocchi di ferro nel finale”. Emile Peynaud su uno Chateau La Coinseillante 1955: “Molto avanti nell’evoluzione, al suo picco. Elegante e aromatico, particolarmente agile e fluido; aggraziato e lungo al palato, tutta finezza”. Addirittura Emile Peynaud nei suoi scritti talvolta indicava la lunghezza delle sue note specificando: nove-parole nota, quaranta-sette parole nota, tre-cento parole nota, oppure, note di quattro righe su ogni vino di una batteria da sette vini. Quando si dice le parole sono importanti. Tornando a noi in molti casi semplicità, istinto e umiltà sono vincenti rispetto a molta fenomenologia che si incontra, vale a dire “un vino è buono quando è buono, quando piace”. In ogni caso c’è una frase che risolve con ironia e nonchalance possibili momenti incerti, eccola: “Questo è un vino che è tutto da scoprire”.

E adesso vorrei concludere con un ricordo “rivelatore” che porto sempre con me. Quando feci assaggiare il vino a mio figlio Luca per la prima volta, aveva circa cinque anni, misi un goccio di un buon vino rosso sulle dita e lo strusciai sulle sue labbra, come si faceva in antichità pensando che il vino rosso ammazzava tutti i mali, lui strizzò gli occhi e scosse la testa, a quel punto gli chiesi, Luca di cosa sa? Mi rispose: “sa di uva !”. Saluti e salute.

Nicola Alocci
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