Oh Perbacco! Con il tempo i gusti cambiano - Prima parte 1

Oh Perbacco! Con il tempo i gusti cambiano – Prima parte9 min read

Con i tempi i gusti cambiano, con la musica, il cinema, la fotografia, la letteratura e l’arte in genere si nota facilmente. La faccenda dei “gusti” e della “memoria del gusto” è una storia complessa. Attenzione non sto tentando un approccio scientifico alla questione vale a dire che lentamente invecchiando diciamo arrivederci ai nostri sensi oppure quelle minestre o certe pietanze che da piccoli erano puro terrore, tipo fegato, verdure e formaggi puzzolenti, diventano quasi oggetto del desiderio. Un po’ perché ci si evolve, si approfondisce o semplicemente perché si segue il proprio essere, anima e corpo, i gusti cambiano. Come dicevo per esempio circa la musica, prendendo il mio percorso, sono partito con il British Pop, poi il Rock, il Folk, la Psichedelia, il Soul, il Blues, il Country, il Gospel, il Punk, la New Wave, passando dall’Hard Rock, al Raggae e il Funky fino ad approdare al Jazz, saltellando dal Be Pop, Cool Jazz, Hard Pop, tornando indietro alle Grandi Orchestre che prima non digerivo, infine Free Jazz, Fusion e ECM. Nel mezzo Acid Jazz, musica etnica, canti Gregoriani, stranezze e divergenze. Poi approdai alla musica sperimentale, alla classica e all’Opera. Oggi come oggi ascolto struggente musica coreana e raga, composizioni tipiche della musica classica indiana. Potrei tranquillamente distendere liste cronologiche circa, cinema, fotografia e arte dall’adolescenza all’età adulta tra stati d’animo e lo scorrere dell’esistenza. Ma veniamo allo “spirito” all’ “alcool”. Amari e liquori credo hanno aperto la strada a tutti, del vino parleremo dopo. Brandy e grappa, ça va sans dire, poi arriva il momento dei distillati del mondo. Nel mio caso ogni preferenza per un distillato mi ha accompagnato più o meno per un decennio. Sono partito con i Rum, Ron e Rhum nelle loro sfaccettature: agricoli, tradizionali e commerciali, bianchi, ambrati, ambrati scuri e neri. Con i distillati più passa il tempo e più si diventa maniacali, circa rarità e sofisticati abbinamenti. Poi la svolta francese, durata un paio di decenni, con i grandi Armagnac e Bas Armagnac, convinto che questa acquavite che invecchia nelle botti di quercia di Guascogna, “il cuore dell’uno fa l’anima dell’altro” come dicono da quelle parti, rappresentavano il paradiso. Ad un certo punto del cammino entra prepotentemente in scena l’“acqua della vita”, il Whisky. Parlo delle grandi espressioni di Whisky dai più morbidi ed eleganti dello Speyside e delle Lowland, al carattere forte e deciso delle Highland, quelli della patria della torba, Islay, intrisi di fumo, iodio e alghe ed i corposi e marini di Cambeltown. Ebbene di ogni di queste zone cercavo il meglio, tanto che andai a lavoro in Scozia, come si dice per approfondire. Ma come si degustano? Io sono d’accordo con la vecchia scuola.
Partiamo dal ghiaccio, mai in un whisky di malto, funziona bene e a volte molto bene con i Blended unica eccezione quando si tratta di ricercatissimi Blended. Perfetta l’acqua ghiacciata da aggiungere a Bourbons. Non aggiungere acqua a whisky molto maturi (oltre 20 anni) oppure invecchiati in botti di sherry, si rischia di spezzare gli aromi ed i sapori diventano insipidi, in questi casi l’acqua ghiacciata deve essere servita a parte e, con molta esperienza, in bocca deve avvenire la miscelazione tra acqua whisky, poco o tanto, insieme o separatamente, dosata in base al whisky stesso, in alcuni rari casi si puó al massimo inumidire il bicchiere, procedura molto interessante. Circa i torbati e quelli molto alcolici per mitigare ed aprire la loro complessità e liberare la potenza degli aromi si puó aggiungere acqua pura ghiacciata, io sono d’accordo con il temuto esperto Wallace Milroy che diceva che la quantità di acqua non deve essere superiore alle gocce di rugiada (tre) su un petalo di rosa la mattina che ne accentuano il suo profumo. Se il Bas Armagnac fu per me il paradiso il Whisky è stato il Nirvana. Nel mezzo ci sono stati alcuni periodi:Vodka, Gin, Tequila, Cachaca, pregiati distillati di frutta e amari artigianali estremi. Da anni ho abbandonato i superalcolici e automaticamente smesso di fumare sigari cubani in accompagnamento, a qualcosa occorre rinunciare. Se devo bere un goccetto, oggi, le mie preferenze vanno su un filo di amaro dei Fratelli Branca, l’inimitabile, unico, irripetibile FERNET. Quella scossa erbosa, speziata, balsamica unita al robusto piacere, prima dolce con finale amaro è come una sferzata vitale che scuote carne e ossa. Si, dopo il Nirvana scozzese un cicchetto di Fernet. Ma adesso arriviamo al vino.
L’uva che ho conosciuto per prima, quella che vinificava mio nonno e poi mio babbo è stata l’ansonaca. In Località Spadino sopra Calagrande, all’Argentario, c’era la vigna, dopo aver lasciato la macchina per un bel tratto ci si arrivava a piedi e, rammento un paio di volte da piccolissimo a dorso di somaro con il nonno. Pozioni di vigna con terrazze di ansonaca, guai a camminar a vuoto nei filari, in faccia al mare con l’Isola del Giglio davanti e a perdita d’occhio striature di inebriante macchia mediterranea, alta e bassa, con leccete, pini marittimi, ginepri, carrubi, ginestre, corbezzoli, rosmarino, lentisco, elicriso, mirto, erica, cisto e finocchio selvatico, un bouquet complesso e salutare, fatto di salmastro, note dolci e amare, balsamiche e minerali. Ricordo tra i filari a ridosso dei muri a secco c’era qualche albero di pesco della vigna. Quegli alberi dal colore giallo arancio venivano piantati per una ragione ben precisa in quando quella tipologia di pesche succose, che maturano nello stesso periodo dell’uva, servivano a togliere la sete durante le fatiche della vendemmia. Che meraviglia quelle profumatissime e picchiettate peschette dalla polpa bianca giallina con leggere venature rossastre, il gusto era intenso e leggermente ammandorlato, un velo di peluria ricopriva la buccia e fin dal primo morso il liquido ti colava dalla bocca. Esistono, parlando di pesca di vigna, sia la tipologia bianca che rossa, ma ricordo anche quelle che chiamavamo “spaccarelle”, in realtà documentandomi ho saputo che la definizione esatta è “pesca spaccatella”, erano piccoline e aprendole il nocciolo si staccava facilmente e premendo sulla scorza la polpa veniva fuori compatta e cremosa, mio babbo me le offriva come un gelato, erano dolcissime e divertenti da mangiare. Specialmente nei periodi di vendemmia assieme a tutta la famiglia era chiamato ad aiutare. Ecco il mio primo approccio al vino: Pestavo l’uva! Da bambino e da ragazzo, pigiavo l’uva a turno con mio fratello, a piedi nudi, all’inizio era entusiasmante, schiacciare gli acini sprofondando piano piano, con l’uva matura che spruzzava il succo sulle cosce fino alla pancia, poi la fatica iniziava a farsi sentire, ma non c’era mai fine perchè continuamente arrivavano panieri pieni di grappoli, ma dall’alto della vasca della pigiatura ci si sentiva grandi e onnipotenti mentre il succo riempiva il tino, si provava un senso di libertà e di gioia che dava la forza di continuare. Quando bevo un vino naturale cerco questo, il succo di uva, naturalmente ben fatto e buono. Poi con le bucce appiccicate addosso e inebriato dal profumo finalmente arrivava uno dei momenti più attesi, il pranzo in vigna. Anche lì c’era da lavorare, cercare la legna, dar vita ad un fuocherello con i seccumi per far arrivare la fiamma sulla quale si gettavano dei rami di lentisco e di mirto che schioppettando davano profumo, poi si recupera la brace sottostante, pronti con la graticola a libretto e via ad arrostire salsicce, pancetta e carne di manzo, all’aperto in vigna. A casa si beveva solo il vino che faceva mio babbo, perchè lui sosteneva che “tutti i vini imbottigliati e confezionati sono industriali”, così tranquillamente li definiva e senza saperlo era d’accordo con Veronelli che provocatoriamente sosteneva che il peggior vino del contadino e migliore del miglior vino industriale. Oggi si direbbe la biodinamica dei contadini che si rigenera nel suo interno. Era quello il vino che era sulla tavola tutti i giorni, genuino e obbligatoriamente a tutto pasto, fatto con poche regole e in condizioni precarie, di colore giallo scuro carico, spesso andava annacquato per via del suo grado alcolico. Mio babbo aveva provato a fare anche uno spumantino, però ogni volta che se ne apriva una bottiglia toccava rimbiancare la cucina. Sicuramente in quel vino oltre all’ansonaca ci finivano dentro altre uve, una sorta di disciplinare generazionale, ma quello che ricordo è che andava bene con il repertorio di portate di mare della cucina domestica di mia mamma, cucina del Promontorio dell’Argentario, come il caldaro, lo scaveccio artigianale, la tonnina, l’anguilla sfumata arrosto, gli sconcigli lessati, gli argentini fritti, le fiche maschie, lo stoccetto in umido, la minestra di scorfanetti o di spernocchie, il risotto o la zuppa con cavolo e femminelle e le frittelle di bianchetti. Erano tutti piatti belli saporiti cucinati con un istinto preciso e passaggi imprescindibili e, in primo luogo solamente quando il determinato ingrediente che andava a comporre il piatto era “di tempo, di stagione, ecco con tutte queste portate quel vino ci stava da dio. Un vino a tutto pasto, anche con le portate di terra era azzeccato, per esempio con la zuppa di lumachelle, fagiolini piatti e patate che adoravo, quando si dice un vino gastronomico. Quel vino di casa non è che mi faceva impazzire, con il tempo arrivai anche a criticarlo mentre ampliavo le mie conoscenze del mondo di Bacco, ma devo ammettere che oggi ne ho nostalgia di quel rustico afrore fuori dagli schemi, caldo e selvatico da agricoltura spontanea, che non seguiva le mode ma che oggi è di tendenza con la modernità dei vini naturali. Ora come ora che sono fissato con i vini estremi sono sicuro che lo avrei apprezzato meglio. Crescendo, fine anni settanta, ho incontrato in discoteca come molti, il nostalgico e seducente Mateus nella sua bottiglia dal design particolare a forma di borraccia, dal Mateus al Galestro capsula viola era questioni di attimi. Con l’ingresso nell’Hotelerie e nella ristorazione, nella metà anni 70 in giro per l’Europa, sia a livello di istruzione che di formazione, il vino prese il sopravvento sulle altre passioni. Ma di ciò ne parleremo nella seconda parte, vi aspetto alla prossima uscita alle prese con i grandi Chateau di Bordeaux, la leggendaria Borgogna, l’esplosivo Riesling, i Supertuscans e rinomate denominazioni italiche e tant’altro.
Saluti e Salute.

Nicola Alocci
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